La protesta dei Forconi: qualcuno apra quella porta

Nel nostro libro “C’è chi dice no”, scritto con Alberto Robiati e Raphael Rossi per Chiarelettere, stimoliamo la partecipazione dei cittadini alla vita pubblica; nei giorni passati, ognuno di noi tre, quasi senza confrontarsi, ha resistito alla tentazione di etichettare la mobilitazione dei Forconi come fascista o di nuova destra, pur comprendendo le ragioni che hanno spinto moltissimi a lanciare con forza tale allarme per la democrazia.

Ho osservato con trepidazione i fatti dell’ultima settimana evitando di esprimermi a caldo per cogliere la dimensione complessiva della protesta.  Così, sono sceso in piazza per vedere da vicino le persone che manifestavano, in particolare lunedì 9 dicembre, e ho ritrovato, è vero, dei “volti noti” come direbbe la Questura o come hanno scritto in molti sui social media per denunciare la partecipazione di Casa Pound o degli anarchici dei centri sociali o dei tifosi della Juve o dei tifosi del Toro, solo che le facce famigliari che ho scorto tra la piazza erano degli ambulanti di Porta Palazzo, dove tra l’altro vivo, quelli che hanno il macchinone e non fanno gli scontrini, ho sentito dire al bar; le facce di molti cittadini extracomunitari, quelli che accettano condizioni miserrime pur di lavorare, ho sentito dire in altre piazze; le stazze di quarantenni inferociti, quelli che fino a ieri guardavano il Grande Fratello, ho letto su molti post, mentre noi a manifestare anche per loro.

C’ero quando i poliziotti si sono tolti i caschi, applauditi in particolare da un gruppetto di ventenni, sedute a terra con fogli scritti a pennarello, come si fa per gli One Direction e ho letto poi “gli appelli al manganello“, addirittura da parte di chi quel manganello lo ha provato sulla propria pelle, in val di Susa o a Genova, per esempio, e anche lì io c’ero.

Una “nevrosi sociale” portata all’eccesso dai social media che rivela come ci siamo confrontati con una protesta inedita per il nostro paese, che non a caso ha avuto il suo epicentro a Torino, città da sempre anticipatrice di fenomeni politici, sociali e culturali.

A una settimana dai “forconi” pur respirandone ancora l’odore, fumogeni e lacrimogeni compresi, e pur vivendone ancora i disagi, lunedì lo sciopero dell’azienda di trasporto locale, che presto diventerà privata, ha creato piccoli collassi tra le arterie della città, stiamo lentamente rimuovendo il black out, innanzitutto emotivo, vissuto nei primi giorni della scorsa settimana.

Spero di sbagliarmi ma credo che questa esplosione di piazza avrà degli straschichi in futuro: il movimento dei Forconi segna innanzitutto una nuova modalità di protesta, senza rappresentanza, efficacemente disorganizzata, difficile da interpretare persino dalla Questura, che ritroveremo altre volte per le nostre strade, oltre a contenere, ahinoi, lo sdoganamento di una richiesta politica di una vera destra, militare e dittatoriale, quella che Berlusconi non ha mai rappresentato in Italia, pur raccogliendone il voto, e che è presente in ogni nazione europea.

Ci sono stati così tentativi repentini di riprendersi la piazza da parte di movimenti attivi da tempo, azioni sacrosante, soprattutto dove il limite democratico era stato di gran lunga superato, in particolare nella cintura di Torino, a Settimo Torinese e a Nichelino, gli ultimi casi, azioni dimostrative a cui si affida la speranza che possano tornare ad essere rappresentative.

Almeno un terzo degli italiani, infatti, si astiene durante le votazioni, cioè, non si sente rappresentato, un dato in continua crescita; il 40% dei giovani è disoccupato, il 27% degli under 35 rientra nella categoria dei Neet, che detta così resta una sigla, a volte tradotta in modo simpatico con “né-né”, cioè né occupazione, né formazione, ma che riportata a immagini reali, significa vivere giornalmente senza l’idea di costruirsi un futuro, rinunciando a cercare lavoro o a prepararsi per una una professione, pur essendo nel pieno delle forze fisiche e mentali. Altri dati ce li fornisce l’osservatorio del Gruppo Abele che non a caso sta lanciando una campagna contro la povertà dal titolo “Miseria ladra”.

I volti noti scesi in piazza sono persone che hanno scelto di partecipare alla vita pubblica, magari per la prima volta, perdoniamoli per tale sfrontatezza, che continueranno a farlo, alternando, a modo loro, quindi, imprevedibile, azioni sui social media a movimenti di piazza; alcuni finiranno per sostenere un nascente movimento di destra, forse guidato da leader in Jaguar con “Il Giornale” sulla cappelliera, evocando “il ritorno di Mussolino”, purtroppo ho sentito anche questo, o di Hitler “perché non si arriva alla fine del mese”.

L’unica risposta possibile, soprattutto in questo momento di emergenza, è aprire con fiducia le istituzioni alla partecipazione; se i cittadini stanno bussando violentemente alla porta dei Palazzi della Regione o dei Palazzi del Comune, significa che quella porta è stata per troppo tempo chiusa, non solo perché succedevano chissà quali intrallazzi, ma per arretratezza culturale di una fetta di politici, che non ha compreso per tempo e non comprende tuttora le opportunità offerte dagli odierni strumenti di comunicazione in termini di incisività e miglioramento dell’attività pubblica.

La partecipazione del territorio è stata relegata ad assessorati minori, senza staff e budget, per intenderci, ed è diventata nevralgica solo quando finalizzata ad accrescere consenso politico ed elettorale, dimenticando però di affiancarla alla partecipazione reale, quella di piazza, sfociata in modo virulento a Torino e nel resto d’Italia, lasciando esterrefatti tanti cittadini attivi che si erano assuefatti alla partecipazione virtuale alla vita pubblica, compresi gli elettori del movimento Cinque Stelle.

Nel nostro libro “C’è chi dice no” dichiariamo in modo convinto che “i cittadini possono risanare lo stato”, una frase scelta addirittura come sottotitolo del libro, solo a condizione che gli amministratori restituiscano loro il potere di cambiare la politica.

La protesta del 9 dicembre è una fragorosa richiesta di ascolto da parte dei cittadini, un gesto molto screanzato per richiamare l’attenzione.

Alla lezione impartita dalla piazza e dai poliziotti senza caschi si dovrebbe rispondere spalancando come non mai le porte delle istituzioni, innanzitutto, ai cittadini già attivi, associazioni e movimenti organizzati, e poi cercando tramite loro di includere nuovi cittadini e nuovi movimenti, in un percorso di cittadinanza attiva per individuare le soluzioni migliori per questa dolorosa crisi sociale; il timore, invece, è che tali fatti creino nuovi alibi per arroccare il potere, lasciando, invece, campo libero a “una guerra tra poveri”, già in atto sui social media e che presto si potrebbe trasferire per strada.

Se si riavvicinano i cittadini allo stato, seppure con grande impegno e fatica, si raccolgono nuove idee, si migliorano i servizi, si alimenta il senso della vita comunitaria.

Nel libro lo raccontiamo prendendo spunto da un’esperienza realizzata personalmente a Napoli dove, in piena emergenza monnezza, abbiamo aperto ai cittadini addirittura l’azienda pubblica dei rifiuti, creando in pochi mesi un presidio civico, ancora oggi vigile e attivo, alternando azioni sul territorio a iniziative sui social media.

Un’azienda pubblica messa in sicurezza, già nella seconda metà del 2011, grazie al coinvolgimento dei cittadini, che vigilano un settore in cui il rischio di infiltrazioni malavitose è sempre molto alto.

Qualcuno apra, dunque, quella porta ai forconi, o si attrezzi per farlo, facendosi aiutare dai tanti movimenti civici diffusi nel paese, senza accampare alibi o sperare in un fenomeno passeggero; certo, sarebbe fantastico che ad attenderli ci fossero dei politici ispirati a un’altra figura riemersa in queste ultime confuse giornate, il presidente Sandro Pertini, basta riguardare alcuni suoi interventi su Youtube per capire come fare politica nel 2013.

Stefano Di Polito
(fondatore con Alberto Robiati e Raphael Rossi dell’associazione www.signorirossi.it)

 

I Commenti sono chiusi