Marketing Responsabile
Estratto da “C’é chi dice no” di Stefano Di Polito, Alberto Robiati, Raphael Rossi; Ed. Chiarelettere (2013)
La corruzione si realizza quando un amministratore pubblico predilige il tornaconto di un’azienda privata ai benefici della collettività. La nostra proposta prevede, quindi, «una parte» consapevole e responsabile anche per le imprese private.
Lo sviluppo delle tecnologie di comunicazione e l’affermarsi dei social media hanno reso pubbliche e frequenti le conversazioni sul gradimento di prodotti e servizi e sulla reputazione delle aziende, che si tratti di corporations o di piccole imprese a conduzione famigliare. È sul web che prendono avvio le campagne virali che fanno conoscere i vizi e le virtù delle aziende, attraverso il passaparola positivo e negativo, generando quello che viene definito marketing collaborativo tra le reti di consumatori.
Le nuove frontiere del marketing, che fanno capo a studi, pubblicazioni e canali web, confermano l’avvio di una nuova fase focalizzata su aspetti di «umanità» e la necessità per le imprese di «posizionarsi» nella società superando i confini del mercato. L’innovazione consiste secondo noi nella capacità di integrare strategie «non profit» (da sempre rivolte alle persone e alla società) e strategie «profit», in modo da accogliere nelle aziende, in particolare nelle funzioni di comunicazione e marketing, le professionalità, i metodi, i linguaggi, le reti e le competenze del sociale. Questa idea di «marketing responsabile» invita le aziende a realizzare progetti di utilità sociale rivolti al pubblico di riferimento e coerenti con la missione e i valori aziendali. La spinta della comunicazione, tramite azioni innovative di marketing collaborativo, virale, relazionale, consentirebbe quindi di garantire benefici in termini di reputazione dell’azienda, fidelizzazione dei clienti, apertura di nuovi mercati e innovazione di prodotti e servizi.
Un’azienda che si occupa di prodotti per bambini potrebbe sostenere le scuole pubbliche e costruire una campagna sui social media, sottraendo budget a classiche azioni pubbli- citarie. Un’azienda di abbigliamento potrebbe favorire una campagna per le unioni di fatto. Un’azienda farmaceutica potrebbe incoraggiare programmi sociali per la terza età. O ancora le aziende – come avviene già in diversi paesi europei – possono occuparsi di progetti di recupero urba- no e edilizio, favorire forme di mobilità ecologiche, offrire un supporto ai quartieri che investono nella bioedilizia o nel risparmio energetico, finanziare acquisti «verdi» della pubblica amministrazione. E così via.
Si tratta evidentemente di un cambiamento di paradigma. Occorre perciò un nuovo impegno anche all’interno delle organizzazioni, per coinvolgere direttamente i dipendenti e favorire la diffusione di nuovi valori e comportamenti.
In cima alla lista delle preoccupazioni di imprenditori e manager, oltre alle quotazioni finanziarie e alle percentuali di mercato, presto prenderanno posto anche i tagli ai servizi educativi, alla sanità e ai trasporti; nei consigli di amministrazione si discuterà dei danni provocati dalle imprese all’ambiente e al paesaggio; le colazioni di lavoro verteranno sulle lacune del sistema culturale e sul recupero del patrimonio artistico e monumentale; gli amministratori delegati sigleranno email ufficiali che tratteranno di inclusione sociale e pari oppor- tunità; mission e vision dichiareranno il sostegno alle filiere corte, all’agricoltura locale e agli allevamenti sostenibili.
Siamo i primi a renderci conto della portata utopistica di questa prospettiva. Però quale cittadino non sarebbe felice di lavorare in un’azienda così o di diventare suo assiduo cliente?
L’assunzione di responsabilità sugli effetti che il lavoro, individuale o aziendale, genera per la società è un passaggio ormai obbligato che attende chiunque. Compito di strateghi e creativi sarà quello di far integrare mondi e culture profit e non profit affinché ogni cittadino «concorra al progresso materiale e spirituale della società» non solo per «dovere» ( dovere sancito dall’art. 4 della Costituzione italiana), ma perché è un «piacere».